Non crescere mai
Ricordo come fosse oggi le mie domeniche di bambino. Il profumo della domenica mattina, l'odore del caffelatte dalla cucina, la mamma ai fornelli, papà che esce vestito bene per andare a prendere i ravioli al pastificio. Io che mi preparo per andare a giocare a calcio, per il mio Genoa. L'ansia, le speranze, i sogni. Le paure. La maglietta numero 2. I pantaloncini corti, il freddo, i campi in terra battuta. Papà sulle gradinate che mi osserva, mi incita, mi spaventa. Sì mi spaventa. Sarò all'altezza dei suoi desideri, delle sue aspettative? No, nessuno può essere all'altezza di tutto questo. Che fatica essere figlio. Che fatica essere padre. Che fatica essere umano. Eppure quella sensazione di perfezione, di armonia, di equilibrio, che non ho mai più provato, che non posso provare più.
Si torna a casa, abbiamo vinto, o forse abbiamo perso. Non me lo ricordo. Non importa, non conta niente. Visto da qui, visto dall'alto, è ininfluente. So che ero felice, per tutto quello che sarebbe stato, che avrebbe potuto essere. La vita è solo questo, un viaggio in cui non conta la strada ma la tua immaginazione, in cui non conta il traguardo ma tutti i tuoi passi, anche quelli falsi. In cui non conta la verità, ma il tuo racconto. In cui vedere, ascoltare, toccare, sono solo bugie necessarie per sopportare quello che provi, quello che "senti", quello che sogni.
Poi si tornava a casa per pranzo. Che profumo quel ragù di mamma, le sue tagliatelle fatte a mano. Che profumo. La tavola, il sole che attraversa il vetro della cucina, la ferrovia che passa lì sotto, il rumore di un treno che fa vibrare i muri. Chissà dove va pensavo. Chissà cosa c'è nel mondo, dopo quella galleria che vedevo dalla mia cameretta. C'era un mondo tutto da capire, da scoprire, da respirare. Ma c'era da andare allo stadio, oggi gioca il Genoa. Io e papà prendiamo l'auto da San Quirico e arriviamo a Genova Est, in autostrada. Mi sembrava il viaggio più lungo del mondo, e mi piaceva. Mi faceva sentire felice quella attesa.
Ricordo la sensazione dolorosa a metà partita. Ci stiamo avvicinando alla fine, alla fine della partita. Avrei voluto fermare il tempo, ma l'orologio andava alla sua velocità, secondo dopo secondo, ed io non potevo fare niente. Dio, pensavo, non puoi fermare un attimo tutto? Dai! Non lo vedi come sto bene, rallenta un attimo, ti prego! Ma lui niente, niente, non ne voleva sapere, non aveva alcuna pietà. Quella giornata stupenda stava per finire, ed anche la partita del Genoa. Avrei dovuto aspettare un'altra settimana per potermi sentire così, ancora una volta così. Così felice.
Avrei aspettato.
Ho aspettato, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, anno dopo anno. Avevo dieci anni, oggi ne ho cinquanta. Dio, come hai potuto farmi questo? Ti avevo chiesto di fermarti un attimo, solo un attimo. Di darmi il tempo di capire, darmi il tempo di... di... di sentirmi così altre volte. Altre volte. Ancora una volta, per piacere. Solo una volta.
Eppure lo so, lo so anche io che è giusto così. Lo so, non lo accetto, ma lo so.
La vita eterna non ha senso, non ha senso. E non ha valore. La vorrei, Dio solo sa quanto la vorrei. Come un bambino vorrebbe che quella partita non finisse mai, mai. Eppure nemmeno lui potrebbe sopportare una partita che duri in eterno, e ad un certo punto sceglierebbe di uscire dallo stadio e tornare a casa.
Ma c'è un'altra domenica da vivere, fatta di ricordi, sapori, profumi, speranze, sogni. Ed un'altra partita del Genoa, comunque vada. L'eternità non ha alcun valore, ma lo ha il tempo che abbiamo per essere felici.
Luca Canfora